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Leonida Bombace
tra i fondatori Associazione NoCap
1969-2021

I caporali da Torino a Nardò. Yvan Sagnet: «Il vino piemontese e i pomodori pugliesi rischiano di avere lo stesso gusto, quello di sfruttamento e schiavitù»

Lug 16, 2024 | Blog NoCap, Servizi Stampa Italia

L’uomo che in Puglia guidò il primo sciopero contro i caporali: «Nord e sud? Nessuna distanza, stesso sfruttamento» 

Sfruttamento dei caporali da Torino a Nardò. Yvan Sagnet: «Il vino piemontese e i pomodori pugliese rischiano di avere lo stesso gusto, quello della schiavitù»     

Yvan Sagnet mentre riceve un riconoscimento dal presidente Mattarella

«Il vino delle Langhe rischia di avere lo stesso sapore che hanno a volte i pomodori pugliesi: il gusto è quello dello sfruttamento e della schiavitù». Yvan Sagnet è stato il primo a dire basta. Originario del Camerun, è arrivato in Italia a 23 anni. «A Torino, per frequentare il Politecnico. Avevo vinto una borsa di studio che, però, a un certo punto non mi venne rinnovata. Decisi di andare in Puglia a lavorare, era l’estate del 2011. Sono diventato un bracciante, raccoglievo pomodori».

Yvan Sagnet ha vissuto lo sfruttamento sulla propria pelle e si è fatto portavoce di una protesta che ha rappresentato l’inizio della lotta al caporalato in Italia. «Sono stato alla guida dello sciopero della masseria Boncuri, che portò all’introduzione del reato del caporalato».

Da Politecnico di Torino ai campi Nardò: che mondo ha conosciuto?

«Quello dello sfruttamento. Si lavorava 10-12 ore sotto il sole, con temperature che raggiungevano i 44 gradi. La paga era di soli 20 euro al giorno. Non potevamo permetterci neanche un tetto sopra la testa. Vivevamo in una specie di ghetto: una baraccopoli costruita attorno ai campi».

Quando ha deciso di ribellarsi?

«Ho detto basta nel momento in cui un bracciante è svenuto a causa del caldo. Era stremato. Volevamo portarlo in ospedale ma il caporale ci disse: “Va bene, ma mi date 20 euro per il trasporto”. Non potevamo permettercelo, quindi lo portammo nel ghetto. Fortunatamente si risvegliò. Il giorno dopo il caporale decise di pagarci non più a ore ma in base ai chili di pomodori che potevamo raccogliere. In questo modo avremmo guadagnato ancora di meno».

Ha dato il via alla mobilitazione, seguito da altri 40 braccianti. Subì ripercussioni?

«Un caporale mi minacciò con un coltello, dicendomi di tornarmene a Torino. Non mi fermai: in gioco c’era la nostra dignità e quella di chi sarebbe arrivato dopo. La rivolta portò alla legge nazionale per il contrasto al fenomeno del caporalato».

Eppure, in tanti oggi continuano a subire. Non è cambiato nulla?

«La legge c’è ma manca la prevenzione. Migliaia di persone, in Puglia come in Piemonte, vengono sfruttate quotidianamente. Botte, insulti, una manciata di euro per giornate di lavoro. Questo accade perché a nessuno conviene monitorare la situazione: la politica non si interessa dei diritti, è invece concentrata sui profitti».

Dal sud al nord: lo sfruttamento cambia?

«Le dinamiche sono le stesse. I braccianti vivono in dieci in 40 mq, a Nardò così come nella provincia di Cuneo o Alessandria. Stesse paghe, stessa schiavitù. La differenza è che al sud esiste proprio la figura del caporale. Anche al nord è presente, ma si tratta di un ruolo che viene svolto principalmente delle cooperative, che collaborano con le mafie. E i braccianti non possono difendersi».

Perché?

«I braccianti italiani ci sono. Ma si tratta perlopiù di stranieri. Parliamo di persone che non possiedono la cittadinanza italiana e che non possono denunciare gli abusi. Se denunciano rischiano di essere rimpatriati. Si preferisce stare zitti, ma si muore di sfruttamento. Basti pensare al caso di Satnam Singh. Bisogna aspettare che qualcuno muoia anche in Piemonte? Lo chiedo ai sindacati. Non basta scendere in piazza, bisogna andare tra i vigneti o nei campi e monitorare le condizioni di lavoro. I sindacati arrivano sempre dopo».

Anche lei è stato sindacalista. Perché ha smesso?

«Per dedicarmi all’Associazione NoCap, che ho fondato. Combattiamo lo sfruttamento puntando sui consumatori che hanno un grande potere in termini di scelta. Alle aziende rilasciamo un bollino etico, riconoscibile sui prodotti venduti ai supermercati. Oggi tra la nostra rete, non contiamo nemmeno un’azienda vitivinicola piemontese».