Yvan Sagnet, 39 anni, dai campi all’associazionismo (premiato da Mattarella) “Proviamo rabbia e sgomento, l’episodio di Latina è solo la punta dell’iceberg”
Roma, 19 giugno 2024 – “Quanto successo a Latina, dove un bracciante extracomunitario è stato lasciato morire, è disumano, indegno di un Paese in cui, ogni giorno, si sottolinea “l’eccellenza“ della filiera agroalimentare: come possiamo continuare a ostentare il valore del cibo made in Italy, se non diamo valore alle braccia che, per prime, raccolgono quei frutti?”. Pesano come macigni le parole di Yvan Sagnet, attivista e saggista camerunense, ex vittima del caporalato e fondatore dell’associazione No Cap, nata per contrastare il fenomeno e diffondere un modello agricolo rispettoso dei diritti umani. Dal 2016, Sagnet è cittadino italiano ed è stato insignito, dal presidente Sergio Mattarella, dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
Sagnet, cosa prova in queste ore?
“Rabbia e sgomento, perché sappiamo che questo episodio, finito sulle pagine di cronaca nazionale, è solo la punta dell’iceberg di una realtà che riguarda tutto il Paese, da Nord a Sud”.
Cosa le raccontano le persone che si rivolgono all’associazione da lei fondata?
“Che permane una situazione di illegalità diffusa, con salari miseri (sui 4-5 euro all’ora, per almeno dieci ore di lavoro al giorno) e mancato rispetto delle più elementari regole di sicurezza. Alle istituzioni sfugge ancora un dettaglio che è sotto gli occhi di tutti: il settore agricolo è quello con la maggior incidenza di lavoro irregolare ed è spesso oggetto di infiltrazioni mafiose”.
Eppure, il caporalato è oggi un reato, in Italia, anche grazie alla sua battaglia, iniziata nel 2011. Cosa ricorda di quel periodo?
“Sono arrivato qui grazie a una borsa di studio, studiavo Ingegneria al Politecnico di Torino. Ma, nel luglio 2011, per pagarmi l’università, ho iniziato a lavorare come bracciante stagionale per la raccolta dei pomodori a Nardò, nel Salento. È stato lì che ho sperimentato la brutalità del caporalato”.
Quali erano le condizioni di lavoro?
“Si lavorava a cottimo, dunque erano richieste rapidità e capacità di sopportazione del caldo per produrre il più possibile. In 16 ore di lavoro, io riuscivo a riempire 4 cassoni di pomodori, ciascuno da 300 chili: ciascun cassone veniva pagato al lavoratore 50 centesimi, 1 euro al massimo”.
Quindi lei guadagnava dai 2 ai 4 euro al giorno?
“A volte anche meno, perché capitava che i capi ci facessero pagare il trasporto nei campi (circa 5 euro) o la bottiglia d’acqua (1,50). Vivevamo in un ghetto alla periferia di Nardò, simile a tanti altri tuttora disseminati tra le campagne pugliesi, o in Calabria. Se ci pensa, non sono molto distanti da dov’è stato organizzato il G7, pochi giorni fa”.
Dopo lo sciopero da lei promosso nel 2011, è diventato punto di riferimento per la difesa dei diritti dei lavoratori agricoli. Come ritiene si possa combattere un fenomeno ancora così diffuso?
“Con una filiera etica, caratterizzata da trasparenza e sostenibilità. Perché parlare di cibo di qualità vuol dire anche rispetto della dignità delle persone. Se sapesse che, in un supermercato qualunque, lei sta per acquistare i frutti raccolti da quel bracciante indiano, prima di morire in quel modo, lei li comprerebbe ugualmente? Acquistare con consapevolezza è un atto politico”.