L’attivista e fondatore dell’associazione No Cap dialoga col Gambero Rosso su un problema endemico e presente su scala nazionale. Riforma dei Centri per l’impiego e più controlli dell’Ispettorato nazionale del lavoro sono alcune delle soluzioni proposte per combattere lo sfruttamento in agricoltura
«Quello che è successo, la tragedia che ha colpito questo lavoratore è immane, indegna di un Paese come il nostro». La morte di Satnam Singh – bracciante indiano di 31 anni, deceduto nella mattinata di giovedì in seguito alla perdita del braccio destro in un incidente sul lavoro e alla mancata tempestiva chiamata dei soccorsi – ha riacceso i riflettori sull’endemica piaga del caporalato in Italia. «Fare morire un ragazzo giovanissimo in questo modo, con un braccio tagliato, è una vergogna», dice al Gambero Rosso Yvan Sagnet attivista e scrittore camerunense, da anni in prima linea tramite l’associazione No Cap, della quale è presidente, nella lotta allo sfruttamento e al lavoro in nero nel settore agroalimentare.
Le insufficienti leggi sul caporalato in Italia
Quello che emerge fin da subito è che la tragedia occorsa a Satnam non si tratti di «un caso isolato. Sono anni che denunciamo situazioni di questo tipo, ma se non ci fosse stata la morte di questo ragazzo, oggi non se ne parlerebbe». Sagnet sottolinea come gli interventi dello stato italiano sul tema, concretizzatisi nella promulgazione, datata 2016, della legge 199, non si siano rivelati in questi anni sufficienti. «Non bisogna illudere nessuno, è un passo in avanti nell’ordinamento giuridico, ma pensare che solo con la repressione si risolva il caporalato è un’utopia». La norma, di fatto, si concentra su pene che vanno dalla reclusione da uno a sei anni e multe fino a due mila euro «per chi recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno».
Un fenomeno che copre Nord e Sud del paese
Tuttavia, secondo il fondatore di No Cap, è necessario concentrarsi maggiormente sulla prevenzione del fenomeno, piuttosto che sulla sua repressione. «Siamo di fronte ad una situazione strutturale», spiega Sagnet, «con circa 400mila lavoratori, perlopiù stranieri e quindi più vulnerabili, in maggior parte stagionali. Si spostano da una regione all’altra a seconda della stagionalità». La panoramica tracciata dall’attivista, in effetti, attraversa tutto lo Stivale italiano da Nord a Sud. Puglia, Calabria («per gli agrumi»), Sicilia («per i pomodori pachino nelle serre del ragusano»), passando per l’Agro Pontino – teatro della tragica morte di Satnam – fino alle regione settentrionale di Piemonte e Trentino, per la raccolta della frutta.
Una dilagante «cultura dell’impunità»
In termini di ulteriori soluzioni per contrastare il fenomeno, Sagnet spiega come i tavoli tecnici aperti negli anni si siano rivelati altrettanto inefficaci, «come No Cap, chiediamo di entrare in profondità e mettere a disposizione soluzioni concrete a partire da una riforma del sistema dei controlli che coinvolga l’Ispettorato nazionale del lavoro. Satnam, abbiamo saputo, lavorava in nero insieme alla moglie. Come è stato possibile?», si domanda l’attivista che spiega come tali pratiche siano agevolate da una dilagante «cultura dell’impunità».
Riforma dei Cpi e prezzi più equi
Un altro intervento auspicabile è la riforma dei Centri per l’impiego (Cpi): la scarsa attenzione ad essi rivolti ha aperto le porte al caporalato. «Non ci sono punti di incrocio legale tra domanda ed offerta di lavoro, il collocamento pubblico è stato smantellato e le aziende, quando hanno bisogno di manodopera, non chiamano più i Cpi, favorendo lo sfruttamento di lavoratori stranieri». Ma se tutto ciò può apparire in qualche modo distante dalle vite di tutti i giorni, esiste tuttavia una dinamica che riguarda «tutto il sistema economico e produttivo» del paese sulla quale No Cap si è concentrata. «Analizzando il fenomeno», dice Sagnet, «ci si rende conto che il sistema ha concentrato il potere del settore agricolo nelle mani di una minorità della filiera produttiva, che sono i supermercati». Essi, «imponendo i prezzi dei prodotti in vendita sempre più bassi» provocano tutto un effetto domino di sfruttamenti che finisce per schiacciare l’anello più debole della catena. «La sfida del futuro sarà quella di stabilire chi deve decidere il prezzo di un prodotto: chi lo produce, o chi lo vende?»
Un problema vicino anche ai consumatori
Nel contesto attuale, il potere contrattuale dei produttori è praticamente nullo. Tale gap è stato esplicitato, come ricorda Sagnet, da manifestazioni come quella dei pastori sardi che cinque anni fa rovesciarono ingenti quantità di latte lamentandone proprio i prezzi bassi di vendita. Come già accennato, No Cap è scesa concretamente in prima linea anche in questo campo, attraverso l’introduzione di un bollino marchio No Cap, che “premia” e certifica proprio le aziende in sintonia con i «principi e valori basati sul rispetto dell’uomo e dell’ambiente. I problemi sono vicini a noi. In questo caso la responsabilità non è certamente del consumatore, ma possiamo e dobbiamo porci delle domande».